«Provate a pensare come avrebbe reagito un vecchio distillatore scozzese degli anni '90 se qualche professorino gli avesse chiesto: "Mi scusi, ma questo sherry cask conteneva Oloroso o Pedro Ximenez?". Facile che l'avrebbe sbattuto fuori a calci...». In questo aneddoto sempre divertente di Max Righi, c'è tutta la differenza filosofica tra il whisky di ieri e quello di oggi. Perché al di là della tecnologia e del marketing, la vera rivoluzione di questi tempi è quella della cura – o dell'ossessione – per il dettaglio. Un approccio scientifico e perfezionista che sta aprendo la forbice fra i cultori della tradizione artigianale («facciamo il whisky così perché lo abbiamo sempre fatto così») e una nuova leva di distillatori-ricercatori che si sta prendendo la scena: i nerd del whisky.

Occorre fare una precisazione: lo studio di ogni dettaglio è ormai comune a quasi ogni produttore. Da molto ormai il whisky è business e non folclore, quindi come ogni attività economica segue regole rigorose di produzione. E questo è pacifico. Ma l'era dei nerd nel whisky va oltre, e fa dell'informazione minuscola e del controllo di ogni minima differenza la nuova frontiera della sperimentazione. Non più solo i legni, o gli alambicchi, o i finish, ma le varietà di orzo, il terroir, i ceppi di lieviti...

Waterford, la distilleria irlandese guidata da Mark Reynier, è la capofila assoluta. L'idea alla base è produrre un "single, single malt" in cui ogni whiskey è unico perché proviene da un'unica zona. Per farlo, hanno assunto l'agronoma Grace O'Reilly e creato un tessuto di fornitori incredibile: oltre 100 fattorie disposte su terreni con 19 composizioni diverse (dall'argilla alla sabbia, al calcare) che coltivano 12 differenti varietà di orzo. Téireoir, ovvero il terroir irlandese. Ogni bottiglia ha un codice con cui, sul sito, chiunque può risalire a ritroso la storia del suo whiskey: le date, i nomi, i luoghi, le fotografie della fattoria, la composizione chimica del suolo, perfino il suono del vento o del mare registrato dal campo d'orzo. Un database mostruoso votato alla trasparenza totale, al servizio di un mercato che sempre di più è goloso non solo di buon distillato, ma di distillato con una provenienza sicura e una carta d'identità chiara.

Wateford barleyTerreno dove si coltiva orzo per Waterford

Un altro esempio è Lakes distillery, aperta in Inghilterra nel 2014. Qui il nerd principe è Dhavall Gandhi, che si è fatto costruire una stanza per annusare i campioni con una porta blindata e un pulsante con cui immette aria fresca e pulita a 19° per spazzare via particelle di profumi estranei. Il dottor Gandhi ha approntato un ventaglio di 48 tipi diversi di sherry casks, con stagionature diverse, livelli di tostatura diversi, provenienze diverse. E con questa tavolozza dipinge novità. Per esempio, ha raccontato a Whisky Magazine come è riuscito a riprodurre un'imitazione del "rancio", quel sentore che si sviluppa nei vini e nei cognac dovuto alla lenta ossidazione degli esteri degli acidi grassi: un mix di American oak solera, refill e first fill PX, ossigenazione e riposo in warehouse umide fanno sì che un whisky di 5 anni ne dimostri almeno 15.

Un'altra frontiera è quella dei lieviti, forse la più affascinante. Il dottor Gandhi ha impiegato due anni per sperimentare oltre 250 tipi diversi di lieviti. Ma è Bill Lumsden, un altro geek dello Scotch, ad aver portato il concetto ancor più avanti con il Glenmorangie Allta del 2019: il primo single malt con un ceppo di lieviti selvaggi ricavati dall'orzo locale e battezzato Saccharomyces diamath, "Dio è buono" in gaelico. E questo per rimanere nel campo dei nerd ossessivo-compulsivi ma non ancora distopici, altrimenti occorrerebbe citare anche il progetto di Mackmyra per il primo whisky creato con un'intelligenza artificiale (anche se a essere onesti il cervellone semplicemente fornisce ipotesi di ricette) e il pauroso Abomination californiano, sottoposto a infusione con legno e poi bombardato con luce di lampade alogene, senza maturazione in botte.

Mackmyra distillery
Distilleria Mackmyra

Al netto di questi eccessi, e senza dimenticare che la stragrande maggioranza dei produttori ancora vive saldamente ancorata a dinamiche old style, tanti indizi fanno una prova. Ovvero che anche il whisky – come già il vino per esempio – sta aprendosi alle richieste di chi "vuole sapere tutto" di ciò che beve. Per farlo, ogni dettaglio può fare la differenza, e c'è dunque bisogno di nuovi pionieri, magari un po' accademici e pignoli, ma preparatissimi e agguerriti. Forse esterificazione e flocculazione saranno termini un po' meno evocativi di copper dog o angel's share, ma non lasciatevi ingannare: nulla è più affascinante della conoscenza.